Il 42% delle grandi aziende italiane utilizza sistemi di automazione dei processi

Il 42% delle grandi aziende italiane utilizza sistemi di automazione dei processi, una percentuale che si alza al 60% tra le grandissime imprese, ovvero quelle con oltre 1.000 addetti. Tuttavia, solo il 15% di queste organizzazioni ha avviato progetti di automazione intelligente dei processi, combinando tecniche tradizionali con funzioni di intelligenza artificiale. Anche in questo caso, la percentuale sale al 34% se ci si concentra solo sulle grandissime imprese, mentre scende al 10% se si restringe l’analisi alle realtà grandi (250-999 addetti).

Nonostante il 61% delle grandi aziende abbia avviato un qualche progetto di Intelligenza Artificiale almeno in fase sperimentale, questi dati dimostrano che la gran parte dei progetti di AI in Italia sono volti a costruire sistemi di supporto alle decisioni che non si traducono in automazione. Inoltre, i progetti di AI sono in molti casi in stato di sperimentazione, non ancora integrate nei processi aziendali a regime.

Le funzioni maggiormente coinvolte in progetti di Intellingent Automation

La ricerca dell’Osservatorio Intelligent Business Process Automation della School of Management del Politecnico di Milano ha evidenziato che solo il 15% delle grandi aziende italiane ha formalizzato il know-how per renderlo fruibile a sistemi automatici supportati dall’IA. La funzione aziendale più coinvolta in progetti di Intelligent Automation è l’Accounting, Finanza e Controllo, seguita da Operations, Sales e Customer Service. La ricerca ha censito 501 aziende internazionali attive nell’ambito della Process Automation che hanno ricevuto finanziamenti negli ultimi 20 anni, raccogliendo in totale 15 miliardi di dollari.

Nel periodo 2014-2020, si è osservato un aumento progressivo nel numero di aziende finanziate e nei valori dei finanziamenti, con l’82% del totale raccolto tra il 2018 e il 2022. Questi dati evidenziano l’affermazione della Robotic Process Automation come nuovo comparto nell’offerta software.

L’adozione della business process automation

L’adozione della business process automation può avvenire a tre livelli incrementali: task-level, business process e business process reengineering. Le soluzioni tecnologiche per l’automazione dei processi includono la Robotic Process Automation, le tecnologie low-code e no-code, e l’integrazione dell’Intelligenza Artificiale. Tuttavia, l’adozione delle tecnologie di process intelligence (task mining, process mining) è ancora limitata, e l’80% delle aziende che hanno automatizzato alcuni processi non ha utilizzato tali tecnologie.

L’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale

L’Artificial Intelligence trova opportunità di applicazione in tutte le fasi di gestione e automazione dei processi aziendali. È possibile identificare cinque categorie: business process management (AI4BPM), sviluppo e funzionamento dell’automazione, interazione con l’automazione, automazione del processo, orchestrazione di più processi. L’AI4BPM prevede l’utilizzo dell’Artificial Intelligence a supporto dell’analisi e modellazione del processo. L’AI può essere utilizzata per comprendere e anticipare colli di bottiglia e inefficienze nei processi, può supportare la ricostruzione del processo end-to-end, e può fornire suggerimenti di esecuzione del processo.

Fenomeno burnout: 8 giovani su 10 lascerebbero un lavoro “tossico”  

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ufficialmente riconosciuto il burnout come una condizione medica associata allo stress cronico sul lavoro, inserendolo nella classificazione internazionale delle malattie.

Questo passaggio mette in luce la crescente preoccupazione per la gestione inadeguata dello stress nei luoghi di lavoro in tutto il mondo. In particolare, emerge un dato preoccupante: circa il 20% dei dipendenti sperimenta sintomi di burnout.

Incidenza diversa a seconda della dimensione aziendale 

L’analisi rivela che il fenomeno colpisce in modo più significativo i dipendenti delle aziende più piccole, coloro che non ricoprono posizioni manageriali e i lavoratori più giovani. In particolare, l’80% dei dipendenti appartenenti alle gen Z e Millennial sarebbe disposto a lasciare il lavoro a causa di una cultura aziendale tossica.

Francesca Verderio, leader di formazione e sviluppo di Zeta Service, azienda italiana specializzata in servizi hr e payroll, sottolinea l’importanza di prestare attenzione ai segnali lanciati dai collaboratori e di monitorare costantemente il clima aziendale.

Conflitti e pressioni le cause del malessere 

Conflitti interpersonali, mancanza di chiarezza su compiti, responsabilità e obiettivi, e la pressione legata alle tempistiche e al carico di lavoro sono tra le principali cause del burnout. Questi fattori contribuiscono a generare confusione, stress e una riduzione della produttività dei dipendenti.

I Paesi che soffrono di più il burnout

Un sondaggio condotto dal McKinsey Health Institute su 30.000 dipendenti in 30 paesi evidenzia differenze sostanziali nelle percentuali di burnout. A livello globale, il 22 % dei lavoratori sperimenta sintomi di burnout. Ma il tasso più alto si registra in India (59%) e il più basso in Camerun (9%). L’Italia si colloca nella parte bassa della classifica con il 16%, ma registra una percentuale elevata di episodi di stanchezza fisica e mentale (43%).

L’impatto economico del fenomeno

Le sempre più frequenti dimissioni da parte dei giovani rappresentano uno dei principali ostacoli per i talent manager nell’introduzione di nuove skill e la crescita delle imprese. Il calo della soddisfazione lavorativa potrebbe avere un impatto sull’economia globale, con una perdita potenziale di circa 8,8 trilioni di dollari in termini di produttività, secondo Cnbc.

L’importanza dell’ambiente di lavoro

Il McKinsey Health Institute sottolinea che un ambiente di lavoro positivo contribuisce al benessere dei dipendenti e alla loro maggiore produttività. L’analisi del clima aziendale diventa quindi cruciale per le imprese, poiché conoscere le esigenze e le opinioni dei dipendenti è fondamentale per migliorare la vita lavorativa di tutti. Un clima aziendale positivo è correlato a un maggiore coinvolgimento, collaborazione, senso di appartenenza e attrattività per i talenti.

Boom agriturismi: numeri e nuove tendenze del settore in Italia 

Lo rileva il report dell’Istat: il settore agrituristico in Italia è passato da poco più di 14mila aziende nel 2004 a 25.849 nel 2022, riflettendo un tasso di crescita medio annuo del 3,8%.
Una crescita distribuita in modo uniforme tra le diverse macroaree del Paese, con punte del 5,5% e 4,3% nel Nord-Ovest e nel Centro, e valori leggermente inferiori nel Sud, Isole, e Nord-Est. 
Oltre il 53% delle aziende agrituristiche si localizza nelle aree collinari, il 31% in quelle montane e il 16% in pianura.

Ma la forza trainante dell’agriturismo risiede nelle sue offerte economiche chiave, degustazione, alloggio e ristorazione. Tanto che nel periodo 2004-2022 le aziende con servizio di degustazione hanno registrato un impressionante aumento annuo medio del 4,5%, evidenziando una connessione crescente con i prodotti DOP e IGP.

Un fenomeno economicamente sostenibile.

Allo stesso tempo, le aziende con alloggio e ristorazione hanno seguito con tassi medi annui rispettivamente del 3,4% e del 3,2%.
In ogni caso, rispetto al 2004, il valore della produzione nel settore agrituristico è cresciuto al ritmo del 4,2% all’anno, triplicando la capacità produttiva in termini assoluti. Un risultato notevole, soprattutto se confrontato con il settore agricolo generale (+0,51%).

Anche sotto l’aspetto della diffusione territoriale i dati sono altrettanto impressionanti. Se nel 2004 i Comuni che ospitavano almeno un agriturismo (Comuni agrituristici) erano 3.352 in 18 anni se ne sono aggiunti 1.677, portando il totale a oltre 5.029, quasi il 64% dei Comuni italiani.

Aziende multifunzionali: una nuova frontiera

La trasformazione del settore è evidente nella proliferazione di aziende agrituristiche multifunzionali, caratterizzate dalla capacità di offrire almeno tre servizi distinti. 
Le aziende agrituristiche multifunzionali, che rappresentano il 28,2% di tutte le strutture attive, si presentano come un elemento consolidato e rilevante all’interno di questo settore in continua trasformazione.

Dal punto di vista geografico, il Centro si conferma come il luogo principale per la presenza di aziende multifunzionali, con il 28,1% del totale, seguito da Nord-Est (24,7%), Nord-Ovest (19,9%), Sud (16,3%) e Isole (11%).

Aumento delle imprese agrituristiche al femminile

La presenza femminile alla guida delle aziende agrituristiche è in costante aumento, con un totale di oltre 8.800 donne (34,1%) che gestiscono tali attività.
La maggior quota di conduttrici si concentra principalmente al Sud (46,6%), con valori che si avvicinano al 50% in Basilicata, Campania e Calabria.

Al Centro le donne alla guida sono il 36%, con Lazio e Umbria entrambi al 45%, mentre la Toscana registra una percentuale leggermente più bassa (31%). La quota di conduttrici è pressoché simile nelle Isole (36%) e nel Nord-ovest (36%), con la Liguria in testa al 50% di aziende guidate da donne.

L’indice di prevalenza di genere, che indica il rapporto tra aziende con conduttore e aziende con conduttrice, evidenzia una maggiore propensione all’imprenditoria femminile in Basilicata, Liguria e Campania. Al contrario, regioni come Trentino-Alto Adige/Südtirol, Piemonte e Friuli-Venezia Giulia mostrano un indice più basso.

Quali sono l’impatto e la diffusione del Purpose aziendale nell’economia italiana?

Cos’è il Purpose? Com’è vissuto nel nostro Paese? Quali sono i benefici attesi, i maggiori ostacoli per una sua piena attuazione? E quali i legami più forti con le trasformazioni di business?
Il Purpose è il motivo fondamentale per cui un’organizzazione esiste, e negli ultimi anni la sua centralità ha assunto un ruolo sempre più rilevante all’interno dell’agenda dei principali decisori economici, sociali e politici italiani.

A Milano è stata presentata la prima ricerca sull’impatto e la diffusione del Purpose nell’economia italiana, Purpose & Business Transformation: the state of the art in Italy”, realizzato da BVA Doxa, BCG BrightHouse e Polimi Graduate School of Management.
Capire come le aziende stiano provando a ridefinire i propri meccanismi di funzionamento, migliorare il rapporto con le comunità in cui operano, facendo proprio il motivo fondamentale per cui l’impresa esiste, è appunto tra gli obiettivi ispiratori dello studio.

La rilevanza del Purpose sta crescendo

Il 70% dei C-Level e manager dichiara che la propria azienda ha un Purpose chiaro. Questo è vero soprattutto nel settore dei servizi (76%), ma in generale, l’interesse per il Purpose nei prossimi cinque anni è destinato a registrare un notevole aumento per il 69% degli intervistati.

Per il 62% degli intervistati (73% dei ceo) le aziende che implementano e vivono il Purpose riscontrano forti vantaggi nell’ottenimento degli obiettivi aziendali, per il 58% nell’esperienza quotidiana dei dipendenti e per il 57% nella costruzione della reputazione esterna dell’azienda.

Un potenziale non ancora sfruttato pienamente 

Il 40% dei ceo e dei manager intervistati sostiene però che il Purpose non è pienamente sfruttato come risorsa nella propria azienda.
Inoltre, per il 60% dei ceo la sfida più grande è allineare i collaboratori con la leadership.

Ma se l’attenzione al Purpose è destinata a crescere nei prossimi cinque anni, così come gli investimenti e lo sforzo delle imprese, rispetto a una prima fase in cui i temi di identità e di valori sono stati percepiti soprattutto nella loro dimensione sociale, ora se ne colgono con maggior nitidezza i tratti strategici e il potenziale trasformativo.

I tempi sono maturi

Insomma, i tempi sono maturi affinché i leader e i board delle organizzazioni si riapproprino di Purpose e di identità, facendo spazio nelle loro agende e vivendolo come un esercizio autentico e rigoroso.

In un’epoca che vede mercato del lavoro, audience e stakeholder, sempre più esigenti e determinati nel loro ruolo di ‘forze attive’, sulla sfida del Purpose si gioca il futuro e la credibilità delle imprese, chiamate a dimostrare un impegno forte e coraggioso su questa tema.

Investimenti digitali, una priorità per le imprese italiane 

Gli investimenti digitali in Italia continuano a crescere. Le previsioni per il 2024 indicano un aumento dell’1,9% nei budget ICT delle aziende, confermando l’andamento degli ultimi 8 anni e superando le stime di crescita del PIL nazionale.
Nei grandi gruppi, la spesa è concentrata principalmente su sistemi di Information Security (57%), soluzioni di Business Intelligence e visualizzazione dati (45%) e di Big Data Management e architettura dati (37%). Sorprendentemente, al quarto posto (31%), si evidenziano gli investimenti in Artificial Intelligence, Cognitive Computing e Machine Learning, in notevole crescita rispetto all’anno precedente.

Innovazione fa rima con assunzioni

Secondo i manager intervistati, l’innovazione digitale ha portato a un aumento del personale grazie a una maggiore attrattività e crescita per il 24% delle imprese, mentre solo il 14% ha registrato una diminuzione del personale per efficienza dei processi e automazione.
Tuttavia, il principale impatto è stato una crescita della qualificazione professionale, indicata dal 50% delle aziende.

L’86% delle imprese adotta pratiche di Open Innovation

L’Open Innovation emerge come catalizzatore di trasformazione in un mondo in continua evoluzione. Nel 2023, l’86% delle grandi aziende italiane adotta pratiche di innovazione aperta, mentre nelle PMI la percentuale si attesta poco al di sotto della metà, con una crescita più lenta.
Questi risultati sono emersi dalla ricerca condotta dagli Osservatori Startup Thinking e Digital Transformation Academy della School of Management del Politecnico di Milano, presentata nel convegno “Digital & Open Innovation 2024: nuove sfide per imprese e startup”.

I nuovi modelli organizzativi 

Si registra una diffusione di nuovi modelli organizzativi e ruoli con responsabilità. Il 41% delle grandi aziende ha formalizzato una Direzione Innovazione, il 51% ha definito figure di Innovation Champion.
Il 74% ha adottato azioni di “Corporate Entrepreneurship” per stimolare approcci imprenditoriali, principalmente attraverso la formazione su competenze digitali e imprenditoriali (55%) e stili di leadership orientati al change management (52%).

La mancanza di competenze digitali rappresenta la principale sfida (47%) per la trasformazione digitale, seguita dalla resistenza all’adozione di strumenti digitali (44%) e dalla difficoltà di attrarre professionisti con competenze STEM e digitali (34%).
Nonostante una riduzione del 10% dell’organico negli ultimi 3 anni, si è registrato un aumento del 19%, grazie all’introduzione di soluzioni di Innovazione Digitale. Il 50% delle grandi imprese ha visto crescere il livello di qualificazione professionale attraverso upskilling e reskilling digitale.

A fianco delle start up

La collaborazione con startup è prevalente, con il 58% delle grandi aziende coinvolte (era il 33% nel 2018). Tuttavia, ci sono sfide significative, come il rischio di tempi di sviluppo superiori alle aspettative (44%) e la complessità nel conciliare gli obiettivi aziendali con quelli delle startup (39%).
Il 76% delle startup ha attività legate a tematiche di sostenibilità, concentrando l’impegno soprattutto sulla dimensione ambientale. Più della metà utilizza gli SDG come riferimento per il business, mentre il 13% misura la propria carbon footprint. 

Furti in casa: gli italiani hanno paura 

Gli italiani temono di subire un furto in casa. Tanto che il 52,8% degli nostri connazionali indica tale reato come la principale paura, con percentuali più elevate tra coloro che risiedono in abitazioni singole o villette (58,6%) e tra gli anziani (57,6%). Questo emerge dal 2° Rapporto dell’Osservatorio sulla Sicurezza della Casa di Verisure Italia, realizzato dal Censis in collaborazione con il Servizio Analisi Criminale del Ministero degli Interni.
In questo contesto, Massimiliano Valerii, Direttore Generale del Censis, sottolinea l’importanza della sicurezza domestica come componente fondamentale della qualità della vita e del benessere di ogni persona.

Aumento dei reati, specie nelle aree metropolitane

Nel 2022, si è registrato un aumento del 7,2% nei furti e nelle rapine in abitazione, con un totale di 135.447 reati di questo tipo. Tuttavia, nonostante l’incremento, siamo ancora lontani dai livelli pre-Covid e dai valori degli inizi del decennio. Tra il 2013 e il 2022, c’è stata una diminuzione del 46,9% di furti e rapine in casa. L’allarme si concentra nelle grandi aree metropolitane, con Roma al primo posto, seguita da Milano e Torino. Queste tre città rappresentano il 20% di tutti i furti in abitazione in Italia.
E per quanto riguarda la geografia del rischio? Il primo Indice della Sicurezza Domestica a livello regionale, elaborato dal Censis per Verisure Italia, colloca le Marche al primo posto con un valore dell’indice di 117,3 su 100. Al contrario, il Lazio si posiziona all’ultimo posto con un indice di sicurezza di 73,8, seguito da Campania e Puglia. La Lombardia si trova al diciassettesimo posto con 93,3 punti.

Investimenti in sicurezza necessari (purchè siano user friendly)

Il 76,1% degli italiani ritiene che i sistemi di sicurezza siano utili nel dissuadere i ladri, mentre il 75,4% crede che possedere tali sistemi porti a una maggiore tranquillità e benessere. Di conseguenza, il 50,6% della popolazione è pronto ad investire di più nei prossimi anni per la sicurezza domestica.
Per quanto riguarda i requisiti di questi sistemi, il 94,4% degli italiani considera molto (67,1%) o abbastanza importante (27,3%) la capacità di un sistema di rilevare un tentativo di furto o intrusione prima che avvenga. Questo evidenzia la crescente necessità di sistemi predittivi per potenziare le capacità degli allarmi. La facilità d’uso è l’aspetto principale per il 36,3%, seguita dall’assistenza gratuita nelle diverse fasi di vita del prodotto (23,7%).

Cresce il tasso di occupazione fra i giovani diplomati e laureati

Il mondo del lavoro italiano è più aperto nei confronti dei giovani. Stando alle ultime statistiche, infatti, nel 2022 gli under 35 con un titolo di studio superiore hanno avute molte di più chance di trovare un impiego. Il tasso di occupazione è stato del 56,5% per coloro in possesso di un diploma e addirittura del 74,6% per i laureati. Questi dati rappresentano un incremento rispettivamente del 6,6% e del 7,1% rispetto all’anno precedente.
È importante notare che il tasso di occupazione dei laureati ha superato di 4 punti il livello registrato prima della crisi economica del 2008. Tuttavia, rimangono notevoli differenze rispetto agli altri paesi europei.

Geografia e condizione socio cultuale fanno la differenza

Secondo un rapporto dell’Istat, nel Mezzogiorno d’Italia, i laureati tra i 30 e i 34 anni hanno un tasso di occupazione che è inferiore di 20 punti percentuali rispetto alle regioni del Nord (69,9% contro 89,2%). Questa disparità è significativa e riflette le sfide economiche regionali presenti nel paese.

Un altro dato interessante è legato al livello di istruzione della famiglia di origine. Quando i genitori hanno un basso livello di istruzione, un giovane su quattro abbandona gli studi in modo precoce e solo uno su dieci raggiunge il titolo terziario. Al contrario, quando almeno un genitore è laureato, queste percentuali si riducono notevolmente, con meno di tre su 100 giovani che abbandonano gli studi precocemente e circa sette su 10 che raggiungono un titolo terziario.

Italiani studiosi? Meno dei tedeschi e dei francesi

In Italia, nel 2022, il 63,0% della popolazione tra i 25 e i 64 anni aveva almeno un titolo di studio secondario superiore, una percentuale simile a quella della Spagna (64,2%), ma significativamente inferiore a quella di paesi come la Germania (83,2%), la Francia (83,3%) e la media dell’UE27 (79,5%). Anche la percentuale di coloro che hanno conseguito un titolo di studio terziario (20,3%) è più bassa rispetto alla media europea (34,3%) e rappresenta solo la metà di quella registrata in Francia e Spagna (41,6% e 41,1% rispettivamente).

Istruzione fondamentale per trovare lavoro

Nel 2022, il tasso di occupazione dei laureati è stato del 83,4%, superiore di 11 punti percentuali rispetto ai diplomati (72,3%) e di 30 punti percentuali rispetto a coloro che hanno conseguito al massimo un titolo secondario inferiore (53,3%). Inoltre, il tasso di disoccupazione tra i laureati è stato solo del 3,9%, inferiore rispettivamente di 2,6 e 7,0 punti percentuali rispetto ai diplomati e ai titolari di istruzione secondaria inferiore. Questi dati confermano l’importanza dell’istruzione nell’aumentare le probabilità di trovare un lavoro.

Tuttavia, nonostante questi progressi, le opportunità di lavoro in Italia rimangono inferiori rispetto alla media europea, anche per i laureati. Il tasso di occupazione nell’UE27 è superiore di quattro punti rispetto all’Italia, una differenza analoga a quella osservata per coloro con titoli di istruzione medio-bassi. 

Qual è l’importo minimo dell’Assegno Unico senza presentare l’ISEE?

L’Assegno Universale Unico (AUU) è il supporto economico fornito dall’INPS a tutte le famiglie con figli a carico, e rappresenta un contributo che riunisce e sostituisce i bonus di maternità INPS e i bonus regionali precedentemente esistenti. Ma se per presentare la richiesta è necessario fornire in anticipo l’ISEE, è comunque possibile richiedere l’Assegno Unico 2023 anche in assenza di ISEE. In tal caso l’importo sarà quello minimo, ovvero 50 euro mensili per ogni figlio minore a carico presente all’interno del nucleo familiare.

Se l’ISEE inferiore è a 15.000 euro agevolazione più alta per ogni figlio

L’assegno unico per i figli, in quanto di portata universale, è quindi riconosciuto persino a coloro che non dispongono di una dichiarazione ISEE o che scelgono di non presentarla: in questo caso avranno sempre diritto all’Assegno, ma sarà dell’importo minimo, come se si avesse un ISEE superiore a 40.000 euro. Viceversa, chi ha un ISEE inferiore a 15.000 euro avrà diritto alla agevolazione più alta per ciascun figlio. Alcuni mesi fa, però, il Ministro della Famiglia e delle Pari Opportunità ha dichiarato durante la presentazione della legge di Bilancio l’intenzione di rivedere il ‘fattore ISEE’ per determinare gli importi degli assegni unici e universali, legandoli al nuovo quoziente familiare.

Le novità introdotte a gennaio

La legge di bilancio approvata nello scorso dicembre 2022, in vigore dal 1° gennaio 2023, ha introdotto alcune novità per l’Assegno Unico e Universale. Anzitutto, un aumento del 50% dell’assegno unico per le famiglie con figli di meno di un anno, un aumento del 50% dell’assegno unico per i figli con un’età compresa tra 1 e 3 anni, per nuclei familiari con almeno 3 figli e con ISEE fino a 40.000 euro. Inoltre, un aumento del 50% dell’assegno per le famiglie con 4 o più figli. La legge ha inoltre confermato gli aumenti già stati previsti nel 2022 per i figli disabili sopra i 18 anni senza che vi sia limite d’età.

Non occorre modificare la domanda già presentata per aggiornare il proprio ISEE

In ogni caso, il processo di invio telematico AUU 2023 è attivo dal 1 marzo. L’assegno sarà versato direttamente sul conto corrente intestato al richiedente, come indicato durante la domanda. Il contributo viene elargito mensilmente e verrà accreditato entro 30 giorni dalla presentazione della domanda, seguito da un versamento mensile regolare. Nel caso di ritardi nel pagamento, eventuali somme arretrate saranno pagate in un’unica soluzione durante la prima mensilità disponibile.
Ma è necessario modificare la domanda di Assegno Unico già presentata per aggiornare il proprio ISEE? La risposta è negativa. È sufficiente compilare un modulo sul sito dell’INPS, o recarsi presso le sedi territoriali dell’INPS o un CAF convenzionato con l’INPS per ricevere assistenza gratuita.

La Generazione Z tra mito e realtà

Descritta come più attenta a sostenibilità ambientale, inclusione e diversità, ma soprattutto immersa fin dalla nascita nel digitale, la GenZ è veramente così diversa dalle precedenti? Secondo lo studio Ipsos Global Trends, in Italia i giovanissimi preoccupati per un imminente disastro ambientale sono il 75%, percentuale inferiore rispetto alla media nazionale. Inoltre, non prestano particolare attenzione allo spreco d’acqua, al consumo di energia o di carne, e neanche alla raccolta differenziata. E se la GenZ viene descritta come ossessionata dal comportamento etico di marca, pronta a boicottare un’azienda che non rispetta i requisiti di sostenibilità ambientale e sociale, dal punto di vista delle scelte di consumo è la prima consumatrice di fast fashion, nota per il grave impatto ambientale.

Valori: tra sfiducia e voglia di reagire

Insomma, la GenZ è un agglomerato eterogeneo, in cui le tracce utopiche si accompagnano alla voglia di protagonismo e individualismo. Nati a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio, dal punto di vista valoriale i ragazzi della GenZ mostrano un approccio sicuramente più globale, aperto e inclusivo. Presentano una maggiore apertura verso i diritti civili, dichiarando un forte sostegno al matrimonio tra persone dello stesso sesso e all’adozione per le coppie omogenitoriali. Sono anche più inclini a esplorare e adottare una visione più aperta della sessualità e del genere. Infatti, secondo l’indagine globale Ipsos LGBT+ Pride 2023, rispetto ad altre fasce di età sono più propensi a dichiararsi LGBT+ (+18% vs 9%), in particolare, bisessuali o gender-fluid.

Completamente immersi nella tecnologia

Ma una cosa è certa: la GenZ è la prima a essere cresciuta completamente immersa nelle tecnologie digitali. Si tiene al passo con ciò che accade nel mondo soprattutto tramite passaparola, messaggistica, e social. Tuttavia, non rifiuta categoricamente l’informazione, ma sembra maggiormente interessata alle cosiddette ‘soft news’ (intrattenimento, celebrity, formazione, cultura, arte). In generale la dieta mediatica dei GenZ è varia e multimediale, usano mediamente 5-6 mezzi/piattaforme, e secondo il centro di Audience e Media Measurement di Ipsos, i contenuti più graditi sui social sono quelli amatoriali creati da amici (42%) o creator (37%). Non importa che siano prodotti professionalmente, ma che siano autentici e dall’elevato valore di intrattenimento.

Lavoro: tra certezze ed equilibrio esistenziale

Secondo l’indagine elaborata dall’Area Studi Legacoop e Ipsos, la GenZ si distingue poi per un approccio al mondo del lavoro definito da motivazioni valoriali e valutazioni pragmatiche.
Nella scala dei valori considerati più importanti, il lavoro è al sesto posto, preceduto da famiglia, amicizia, amore, ma anche divertimento e cultura. Se il trattamento economico è al primo posto (44% GenZ vs 43% campione totale), per la GenZ al secondo posto vengono disponibilità di tempo libero e flessibilità dell’orario, seguita dall’autonomia. Solo al quarto stabilità del lavoro (25% GenZ vs 42%).
In sostanza, i giovanissimi cercano un equilibrio tra lavoro e vita privata, e sono inclini a cercare opzioni di lavoro flessibili per adattarsi alle loro esigenze e priorità personali.

Addio ferie d’agosto: con lo smartworking cambiano le vacanze

Un’abitudine che risale ai tempi dei Romani, mantenuta viva fino a oggi e alimentata dal fatto che le ferie scolastiche in Italia sono quasi tutte concentrate in estate, soprattutto ad agosto. Ma qualcosa sta cambiando. Come tutto ciò che riguarda il mondo del lavoro, anche le vacanze sono entrate nel vortice del cambiamento. Da policy aziendali che sperimentano lo smartworking ad aziende che sperimentano ‘ferie libere’, un modello che dà ai propri dipendenti massima flessibilità, anche in Italia ci si sta interrogando su alcuni assunti da sempre considerati caposaldo delle vacanze. Come quello secondo il quale la parola ‘ferie’ deve essere accompagnata da ‘agosto’.

Mai più code infinite in autostrada 

“La concezione delle ferie cambia, come cambia il mondo del lavoro – commenta Pietro Novelli, general manager di Oliver James Italia -. L’introduzione dello smartworking sta modificando le abitudini dei lavoratori italiani a partire dalle due canoniche settimane centrali di agosto. La possibilità di lavorare da luoghi diversi dall’ufficio permette di ri-organizzarsi, potendo unire smartworking e weekend lunghi, suddividendo le vacanze in più momenti dell’anno – continua Novelli -. Si assiste sempre meno all’esodo estivo e alle code infinite in autostrada: le persone possono concedersi fine settimana fuori casa lavorando da remoto anche il lunedì e il venerdì, evitando così imbottigliamenti e rientri notturni la domenica sera”.

Italia al quarto posto fra i paesi europei con più ferie pagate

Insomma, “I dipendenti hanno l’opportunità, come policy, di lavorare da remoto tutto agosto, sia per via della chiusura aziendale sia grazie a politiche di full remote working per il periodo estivo”, aggiunge Novelli. In ogni caso, con 22 giorni l’anno di ferie più 10 festività nazionali, l’Italia si posiziona al quarto posto nella classifica europea dei paesi con più ferie pagate all’anno. Sopra, Austria (con 35 giorni), Portogallo (22 giorni più 13 festività nazionali) e Spagna (22 giorni e 12 festività nazionali). Fanalino di coda, il Regno Unito, che con soli 20 giorni l’anno di ferie e 8 festività chiude la classifica.

Il futuro è dell’out of office

Ma basta andare oltreoceano per vedere tutto un altro mondo: in USA, ad esempio, non sono garantiti i giorni di ferie pagati dal datore di lavoro, ma solo le festività nazionali. Molte aziende garantiscono lo stesso le ferie, che però, si aggirano tra 10 e 14 giorni all’anno.
“Un quadro ben diverso da quello europeo – racconta Novelli – Eppure, è proprio dagli Stati Uniti che stanno nascendo nuove tendenze in fatto di ferie e lavoro”.
Le big tech americane, come Adobe, Salesforce, LinkedIn, Oracle, Netflix e ora anche Microsoft, stanno dando vita a un nuovo modello: quello delle ‘ferie libere’. Nella mail che Microsoft ha inviato ai propri dipendenti statunitensi si parla di ‘Discretionary Time Off’, ovvero Tempo libero discrezionale. Insomma, riporta Adnkronos, forse è troppo presto per decretare la fine delle ferie d’agosto, ma sicuramente un nuovo modello sta emergendo.