L’Intelligenza artificiale è in grado di calcolare l’aspettativa di vita?

La questione riguardante la prevedibilità della vita umana è stata a lungo argomento di dibattito tra gli scienziati sociali. Se i fattori sociodemografici, quelli che giocano un ruolo importante nelle vite umane, sono ben compresi, finora non è stato possibile prevedere con precisione la fine della vita

Ma un modello descritto in uno studio pubblicato su Nature Computational Science, potrebbe essere in grado di fornire una comprensione quantitativa del comportamento umano. In altre parole, potrebbe calcolare l’aspettativa di vita.

Un approccio di apprendimento automatico ha infatti dimostrato di essere in grado di prevedere con precisione diversi aspetti della vita umana, tra cui la probabilità di mortalità precoce nonché le diverse sfumature della personalità. 

Una comprensione quantitativa del comportamento umano simile ai modelli linguistici 

Utilizzando i dati relativi all’istruzione, alla salute, al reddito, all’occupazione e ad altri eventi della vita di circa sei milioni di persone provenienti da un registro nazionale danese, Sune Lehmann, professore associato di reti sociali presso la ETH di Zurigo, ha progettato insieme ai suoi colleghi un approccio di apprendimento automatico capace di costruire traiettorie di vita individuali. 

In pratica, i ricercatori hanno adattato le tecniche di elaborazione del linguaggio umano all’interno del modello.
Questo ha permesso di generare un vocabolario che descrivesse gli eventi della vita in modo simile al modo in cui i modelli linguistici catturano le relazioni complesse tra le parole.

Life2vec può prevedere la morte precoce

Il modello proposto, chiamato ‘life2vec’, stabilisce relazioni complesse tra concetti come le diagnosi relative allo stato di salute, il luogo di residenza, i livelli di reddito, codificando le vite individuali con una rappresentazione vettoriale compatta, che costituisce la base per la previsione degli esiti della vita.

Gli scienziati hanno dimostrato che il modello è in grado di prevedere la mortalità precoce.
Nello specifico, il modello life2vec ha previsto che fra gli individui che hanno preso parte allo studio coloro con un’età compresa tra i 35 e i 65 anni sarebbero sopravvissuti nei 4 anni successivi al 1° gennaio 2016.

Una rappresentazione del legame complesso tra dati sociali e sanitari

Inoltre, riferisce Agi, il modello è riuscito a cogliere le sfumature della personalità in modo migliore rispetto ai modelli più avanzati, con una precisione maggiore di almeno l’11%.
I risultati dimostrano che rappresentando il legame complesso tra dati sociali e sanitari è possibile prevedere con precisione gli esiti della vita.

Tuttavia, gli autori sottolineano che la loro ricerca è una esplorazione di ciò che potrebbe essere possibile, pertanto, dovrebbe essere utilizzata solo in condizioni reali, e soprattutto, nel rispetto di norme che tutelino i diritti individuali.

Quali sono l’impatto e la diffusione del Purpose aziendale nell’economia italiana?

Cos’è il Purpose? Com’è vissuto nel nostro Paese? Quali sono i benefici attesi, i maggiori ostacoli per una sua piena attuazione? E quali i legami più forti con le trasformazioni di business?
Il Purpose è il motivo fondamentale per cui un’organizzazione esiste, e negli ultimi anni la sua centralità ha assunto un ruolo sempre più rilevante all’interno dell’agenda dei principali decisori economici, sociali e politici italiani.

A Milano è stata presentata la prima ricerca sull’impatto e la diffusione del Purpose nell’economia italiana, Purpose & Business Transformation: the state of the art in Italy”, realizzato da BVA Doxa, BCG BrightHouse e Polimi Graduate School of Management.
Capire come le aziende stiano provando a ridefinire i propri meccanismi di funzionamento, migliorare il rapporto con le comunità in cui operano, facendo proprio il motivo fondamentale per cui l’impresa esiste, è appunto tra gli obiettivi ispiratori dello studio.

La rilevanza del Purpose sta crescendo

Il 70% dei C-Level e manager dichiara che la propria azienda ha un Purpose chiaro. Questo è vero soprattutto nel settore dei servizi (76%), ma in generale, l’interesse per il Purpose nei prossimi cinque anni è destinato a registrare un notevole aumento per il 69% degli intervistati.

Per il 62% degli intervistati (73% dei ceo) le aziende che implementano e vivono il Purpose riscontrano forti vantaggi nell’ottenimento degli obiettivi aziendali, per il 58% nell’esperienza quotidiana dei dipendenti e per il 57% nella costruzione della reputazione esterna dell’azienda.

Un potenziale non ancora sfruttato pienamente 

Il 40% dei ceo e dei manager intervistati sostiene però che il Purpose non è pienamente sfruttato come risorsa nella propria azienda.
Inoltre, per il 60% dei ceo la sfida più grande è allineare i collaboratori con la leadership.

Ma se l’attenzione al Purpose è destinata a crescere nei prossimi cinque anni, così come gli investimenti e lo sforzo delle imprese, rispetto a una prima fase in cui i temi di identità e di valori sono stati percepiti soprattutto nella loro dimensione sociale, ora se ne colgono con maggior nitidezza i tratti strategici e il potenziale trasformativo.

I tempi sono maturi

Insomma, i tempi sono maturi affinché i leader e i board delle organizzazioni si riapproprino di Purpose e di identità, facendo spazio nelle loro agende e vivendolo come un esercizio autentico e rigoroso.

In un’epoca che vede mercato del lavoro, audience e stakeholder, sempre più esigenti e determinati nel loro ruolo di ‘forze attive’, sulla sfida del Purpose si gioca il futuro e la credibilità delle imprese, chiamate a dimostrare un impegno forte e coraggioso su questa tema.

Investimenti digitali, una priorità per le imprese italiane 

Gli investimenti digitali in Italia continuano a crescere. Le previsioni per il 2024 indicano un aumento dell’1,9% nei budget ICT delle aziende, confermando l’andamento degli ultimi 8 anni e superando le stime di crescita del PIL nazionale.
Nei grandi gruppi, la spesa è concentrata principalmente su sistemi di Information Security (57%), soluzioni di Business Intelligence e visualizzazione dati (45%) e di Big Data Management e architettura dati (37%). Sorprendentemente, al quarto posto (31%), si evidenziano gli investimenti in Artificial Intelligence, Cognitive Computing e Machine Learning, in notevole crescita rispetto all’anno precedente.

Innovazione fa rima con assunzioni

Secondo i manager intervistati, l’innovazione digitale ha portato a un aumento del personale grazie a una maggiore attrattività e crescita per il 24% delle imprese, mentre solo il 14% ha registrato una diminuzione del personale per efficienza dei processi e automazione.
Tuttavia, il principale impatto è stato una crescita della qualificazione professionale, indicata dal 50% delle aziende.

L’86% delle imprese adotta pratiche di Open Innovation

L’Open Innovation emerge come catalizzatore di trasformazione in un mondo in continua evoluzione. Nel 2023, l’86% delle grandi aziende italiane adotta pratiche di innovazione aperta, mentre nelle PMI la percentuale si attesta poco al di sotto della metà, con una crescita più lenta.
Questi risultati sono emersi dalla ricerca condotta dagli Osservatori Startup Thinking e Digital Transformation Academy della School of Management del Politecnico di Milano, presentata nel convegno “Digital & Open Innovation 2024: nuove sfide per imprese e startup”.

I nuovi modelli organizzativi 

Si registra una diffusione di nuovi modelli organizzativi e ruoli con responsabilità. Il 41% delle grandi aziende ha formalizzato una Direzione Innovazione, il 51% ha definito figure di Innovation Champion.
Il 74% ha adottato azioni di “Corporate Entrepreneurship” per stimolare approcci imprenditoriali, principalmente attraverso la formazione su competenze digitali e imprenditoriali (55%) e stili di leadership orientati al change management (52%).

La mancanza di competenze digitali rappresenta la principale sfida (47%) per la trasformazione digitale, seguita dalla resistenza all’adozione di strumenti digitali (44%) e dalla difficoltà di attrarre professionisti con competenze STEM e digitali (34%).
Nonostante una riduzione del 10% dell’organico negli ultimi 3 anni, si è registrato un aumento del 19%, grazie all’introduzione di soluzioni di Innovazione Digitale. Il 50% delle grandi imprese ha visto crescere il livello di qualificazione professionale attraverso upskilling e reskilling digitale.

A fianco delle start up

La collaborazione con startup è prevalente, con il 58% delle grandi aziende coinvolte (era il 33% nel 2018). Tuttavia, ci sono sfide significative, come il rischio di tempi di sviluppo superiori alle aspettative (44%) e la complessità nel conciliare gli obiettivi aziendali con quelli delle startup (39%).
Il 76% delle startup ha attività legate a tematiche di sostenibilità, concentrando l’impegno soprattutto sulla dimensione ambientale. Più della metà utilizza gli SDG come riferimento per il business, mentre il 13% misura la propria carbon footprint. 

GenZ e lavoro: stipendio al primo posto, ma ai sogni non si rinuncia 

Lo ha scoperto la ricerca svolta da Adecco, società di The Adecco Group, in partnership con Teleperformance: per i giovani della Generazione Z il driver principale che guida le scelte relative al lavoro è lo stipendio, che raccoglie il 61% delle ‘preferenze’.

Al secondo posto, e a pari merito, si posizionano la volontà di fare un lavoro in linea con i propri studi o interessi, e il bilanciamento tra vita e lavoro (32%).
Buone performance ottiene anche il tema della flessibilità oraria, individuato come componente fondamentale per la scelta del lavoro dal 30% dei nati tra il 1995 e il 2005, mentre fra gli indicatori che riscuotono meno interesse, a sorpresa, emerge l’attenzione dell’azienda verso i dipendenti (12%), e ancora meno, l’allineamento fra valori personali/aziendali, l’impegno verso la sostenibilità e l’ambiente, e i benefit aziendali (9%).

Cercare un’occupazione: che stress!

La GenZ non rinuncia però ai propri interessi e alla crescita professionale: 6 su 10 sono disposti ad accettare uno stipendio più basso in cambio di un ruolo gratificante e in linea con gli studi compiuti.
Probabilmente, anche per questa ragione, il 74% dei giovanissimi che già lavorano si dichiara soddisfatto della propria occupazione, e il 40% afferma di avere trovato il lavoro della propria vita.

Di fatto, in Italia, il 20% degli assunti appartiene alla GenZ. E più che il lavoro, a creare più preoccupazione sembra la ricerca dello stesso.
Per 68% la ricerca di lavoro viene effettuata con sentimenti negativi, legati principalmente a preoccupazione (38%), ansia (31%) o rassegnazione (12%).

Donne e uomini hanno priorità diverse

Se lo stipendio è il primo fattore determinante nella scelta del lavoro sia per gli uomini (63%) sia per le donne (60%) le similitudini, tuttavia, finiscono qui.
Al secondo posto, infatti, il 31% degli uomini pone la tipologia di contratto, mentre le donne (39%) un lavoro in linea con i propri studi/interessi.

Al terzo posto per gli uomini della GenZ (29%) si piazza la possibilità di fare carriera, mentre per le donne il bilanciamento vita-lavoro (35%).
Altre differenze emergono nell’importanza attribuita all’inclusività in azienda, che per le donne (16%) è decisamente più importante che per gli uomini (10%). E nell’allineamento fra i valori aziendali e personali, più importante per gli uomini (11%) rispetto alle donne (6%).

Al Centro, Sud e Isole giovani più attenti alle tematiche ambientali

Lo stipendio, ancora una volta, risulta al primo posto in tutta Italia, seppur con alcune differenze percentuali: 68% nel Nord Ovest, 55% Nord Est, 57% Centro, 62% Sud.
Quanto al bilanciamento vita-lavoro, nel Nord Est è un fattore fondamentale per il 34% degli intervistati, contro il 33% nel Nord Ovest, il 28% nel Centro e il 31% al Sud e Isole.

Al Centro, al Sud e nelle Isole la GenZ è più attenta a tematiche ambientali, mentre l’impegno del datore di lavoro è considerato dirimente nel 10% dei casi per tutte le aree geografiche. Non molto lontano dal 9% rilevato nel Nord Est, ma che inizia mostrare un gap decisamente più ampio con il Nord Ovest, dove questo aspetto si ferma al 7%.

Furti in casa: gli italiani hanno paura 

Gli italiani temono di subire un furto in casa. Tanto che il 52,8% degli nostri connazionali indica tale reato come la principale paura, con percentuali più elevate tra coloro che risiedono in abitazioni singole o villette (58,6%) e tra gli anziani (57,6%). Questo emerge dal 2° Rapporto dell’Osservatorio sulla Sicurezza della Casa di Verisure Italia, realizzato dal Censis in collaborazione con il Servizio Analisi Criminale del Ministero degli Interni.
In questo contesto, Massimiliano Valerii, Direttore Generale del Censis, sottolinea l’importanza della sicurezza domestica come componente fondamentale della qualità della vita e del benessere di ogni persona.

Aumento dei reati, specie nelle aree metropolitane

Nel 2022, si è registrato un aumento del 7,2% nei furti e nelle rapine in abitazione, con un totale di 135.447 reati di questo tipo. Tuttavia, nonostante l’incremento, siamo ancora lontani dai livelli pre-Covid e dai valori degli inizi del decennio. Tra il 2013 e il 2022, c’è stata una diminuzione del 46,9% di furti e rapine in casa. L’allarme si concentra nelle grandi aree metropolitane, con Roma al primo posto, seguita da Milano e Torino. Queste tre città rappresentano il 20% di tutti i furti in abitazione in Italia.
E per quanto riguarda la geografia del rischio? Il primo Indice della Sicurezza Domestica a livello regionale, elaborato dal Censis per Verisure Italia, colloca le Marche al primo posto con un valore dell’indice di 117,3 su 100. Al contrario, il Lazio si posiziona all’ultimo posto con un indice di sicurezza di 73,8, seguito da Campania e Puglia. La Lombardia si trova al diciassettesimo posto con 93,3 punti.

Investimenti in sicurezza necessari (purchè siano user friendly)

Il 76,1% degli italiani ritiene che i sistemi di sicurezza siano utili nel dissuadere i ladri, mentre il 75,4% crede che possedere tali sistemi porti a una maggiore tranquillità e benessere. Di conseguenza, il 50,6% della popolazione è pronto ad investire di più nei prossimi anni per la sicurezza domestica.
Per quanto riguarda i requisiti di questi sistemi, il 94,4% degli italiani considera molto (67,1%) o abbastanza importante (27,3%) la capacità di un sistema di rilevare un tentativo di furto o intrusione prima che avvenga. Questo evidenzia la crescente necessità di sistemi predittivi per potenziare le capacità degli allarmi. La facilità d’uso è l’aspetto principale per il 36,3%, seguita dall’assistenza gratuita nelle diverse fasi di vita del prodotto (23,7%).

La crisi nel bicchiere: calano consumo ed esportazione di vini

Gli effetti della crisi economica si fanno sentire anche nel settore vinicolo italiano. Nei primi otto mesi di quest’anno, le quantità di vini fermi e frizzanti italiani acquistati nei principali mercati internazionali, che rappresentano oltre il 60% delle importazioni di vino a livello globale, sono diminuite dell’8%. Anche gli spumanti, che avevano registrato una crescita costante nell’ultimo decennio, hanno subito una contrazione del 9%.

Un trend generalizzato

Queste variazioni riflettono il trend generale del mercato, con pochi paesi esportatori che riescono a sfuggire al calo delle vendite. Addirittura, il primo mercato di sbocco per il vino italiano in termini di valore, gli Stati Uniti, ha ridotto le importazioni dall’Italia del 13%.

Negli Stati Uniti, la riduzione della spesa media dei consumatori ha colpito tutti i principali esportatori di vino, ad eccezione della Nuova Zelanda con il suo Sauvignon Blanc, che ha registrato una crescita delle esportazioni del 20% nei primi otto mesi dell’anno. Nel mercato nazionale, le vendite di vino al dettaglio hanno subito una contrazione di oltre il 2% nei primi nove mesi dell’anno, con una diminuzione ancora maggiore nel caso dei vini fermi nei supermercati.

Gli italiani pensano di… bere meno

Un’analisi delle previsioni di consumo dei consumatori italiani per i prossimi sei mesi indica che il 16% dei consumatori prevede di ridurre gli acquisti di vino per risparmiare sulla spesa in generale, mentre il 60% degli italiani non prevede cambiamenti nei propri acquisti.

Le piccole imprese vinicole sono le più colpite da questa situazione, a causa dei pesanti indebitamenti e delle ridotte capacità finanziarie, rese ancora più difficili dalla stretta sui tassi di interesse. Le aziende con un fatturato fino a 10 milioni di euro devono sostenere oneri finanziari significativi in proporzione al loro Ebitda.

L’indagine Wine Monitor e la buona notizia sul regolamento europeo

L’indagine di Wine Monitor sulle imprese vinicole italiane ha rivelato che la pianificazione strategica, l’ottimizzazione dei processi produttivi e l’internazionalizzazione sono priorità per affrontare le sfide attuali. In risposta a questa situazione, Nomisma ha lanciato Wine Monitor Consulting, un servizio di supporto alle imprese vinicole italiane per aiutarle a pianificare e attuare strategie di crescita.

Tuttavia, c’è anche una nota positiva. SI tratta della chiusura dei negoziati sul nuovo regolamento europeo in materia di indicazioni geografiche, Dop e Igp. Questo nuovo regolamento offre maggiore protezione ai vini italiani a indicazione geografica sul mercato europeo e previene le imitazioni dannose per le denominazioni italiane. In altre parole, le richieste di registrazione di menzioni tradizionali che potrebbero essere confuse con Dop o Igp non saranno più accettate.

Italia, il commercio digitale “vola” nel terzo trimestre

A poche settimane dall’approssimarsi della stagione dello shopping natalizio, il terzo trimestre dell’anno registra un ulteriore exploit dell’e-commerce. Rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, il commercio digitale ha segnato un ulteriore incremento del 17%.
I consumatori del Belpaese confermano così il loro interesse per questa modalità di acquisto, tanto che il traffico online è aumentato del del 7%. I dati, emersi dall’ultimo Shopping Index di Salesforce,, dimostrando la propensione dei clienti italiani a utilizzare sia piattaforme digitali sia negozi fisici per soddisfare le proprie esigenze di acquisto.

L’Europa e i cambiamenti nel commercio digitale

A livello europeo, l’analisi del trimestre ha evidenziato una crescita del 9% nel commercio digitale, con un incremento del 2% nelle unità per transazione. Tuttavia, il volume complessivo degli ordini è diminuito del 3%, principalmente a causa dell’aumento dei prezzi, con un incremento medio dell’11% nei costi di vendita.
Continua a crescere, invece, l’utilizzo del mobile per tutte le fasi e le esperienze legate ai processi di acquisto online. A livello globale, lo share degli ordini provenienti da mobile ha raggiunto la quota del 65%. E il valore è destinato ad aumentare ancora.

L’intelligenza artificiale nell’e-commerce 

Uno dei trend più significativi è l’importanza crescente dell’intelligenza artificiale nell’esperienza di acquisto online. I dati raccolti indicano che l’AI influenzerà gli acquisti online globali per un valore stimato di 194 miliardi di dollari durante le festività natalizie.
Oltre il 17% dei consumatori ha già utilizzato tecnologie di intelligenza artificiale generativa per cercare ispirazione per gli acquisti, mentre il 10% prevede di utilizzarle per compilare la propria lista dei regali.
Nel terzo trimestre, il numero di ordini in cui i consumatori hanno seguito raccomandazioni di acquisto generate dall’intelligenza artificiale è aumentato del 6% su base annua a livello globale.

L’Italia mostra dinamismo e resilienza

“Questi dati indicano chiaramente una tendenza significativa nel comportamento dei consumatori italiani”, ha commentato Maurizio Capobianco, Area Vice President di Salesforce. “L’Italia sta dimostrando un notevole dinamismo nel settore del commercio digitale, una conferma della resilienza dei consumatori italiani nonostante i cambiamenti economici globali”.

Le ultime rilevazioni confermano dunque un incremento significativo del commercio digitale in Italia e il crescente ruolo dell’intelligenza artificiale nell’orientare le scelte di acquisto dei consumatori a livello globale, con implicazioni importanti per il settore dell’e-commerce e le festività natalizie in arrivo.

Cresce il tasso di occupazione fra i giovani diplomati e laureati

Il mondo del lavoro italiano è più aperto nei confronti dei giovani. Stando alle ultime statistiche, infatti, nel 2022 gli under 35 con un titolo di studio superiore hanno avute molte di più chance di trovare un impiego. Il tasso di occupazione è stato del 56,5% per coloro in possesso di un diploma e addirittura del 74,6% per i laureati. Questi dati rappresentano un incremento rispettivamente del 6,6% e del 7,1% rispetto all’anno precedente.
È importante notare che il tasso di occupazione dei laureati ha superato di 4 punti il livello registrato prima della crisi economica del 2008. Tuttavia, rimangono notevoli differenze rispetto agli altri paesi europei.

Geografia e condizione socio cultuale fanno la differenza

Secondo un rapporto dell’Istat, nel Mezzogiorno d’Italia, i laureati tra i 30 e i 34 anni hanno un tasso di occupazione che è inferiore di 20 punti percentuali rispetto alle regioni del Nord (69,9% contro 89,2%). Questa disparità è significativa e riflette le sfide economiche regionali presenti nel paese.

Un altro dato interessante è legato al livello di istruzione della famiglia di origine. Quando i genitori hanno un basso livello di istruzione, un giovane su quattro abbandona gli studi in modo precoce e solo uno su dieci raggiunge il titolo terziario. Al contrario, quando almeno un genitore è laureato, queste percentuali si riducono notevolmente, con meno di tre su 100 giovani che abbandonano gli studi precocemente e circa sette su 10 che raggiungono un titolo terziario.

Italiani studiosi? Meno dei tedeschi e dei francesi

In Italia, nel 2022, il 63,0% della popolazione tra i 25 e i 64 anni aveva almeno un titolo di studio secondario superiore, una percentuale simile a quella della Spagna (64,2%), ma significativamente inferiore a quella di paesi come la Germania (83,2%), la Francia (83,3%) e la media dell’UE27 (79,5%). Anche la percentuale di coloro che hanno conseguito un titolo di studio terziario (20,3%) è più bassa rispetto alla media europea (34,3%) e rappresenta solo la metà di quella registrata in Francia e Spagna (41,6% e 41,1% rispettivamente).

Istruzione fondamentale per trovare lavoro

Nel 2022, il tasso di occupazione dei laureati è stato del 83,4%, superiore di 11 punti percentuali rispetto ai diplomati (72,3%) e di 30 punti percentuali rispetto a coloro che hanno conseguito al massimo un titolo secondario inferiore (53,3%). Inoltre, il tasso di disoccupazione tra i laureati è stato solo del 3,9%, inferiore rispettivamente di 2,6 e 7,0 punti percentuali rispetto ai diplomati e ai titolari di istruzione secondaria inferiore. Questi dati confermano l’importanza dell’istruzione nell’aumentare le probabilità di trovare un lavoro.

Tuttavia, nonostante questi progressi, le opportunità di lavoro in Italia rimangono inferiori rispetto alla media europea, anche per i laureati. Il tasso di occupazione nell’UE27 è superiore di quattro punti rispetto all’Italia, una differenza analoga a quella osservata per coloro con titoli di istruzione medio-bassi. 

Oltre 8 medici su 10 sono stanchi di lavorare nel Ssn 

Lo conferma l’indagine Univadis Medscape Italia: per il 57% dei medici italiani il carico di lavoro negli ospedali è aumentato, ma solo nel 27% dei casi è stato assunto nuovo personale. Tanto che se nel 2020 l’ostacolo principale per i camici bianchi era la burocrazia nel 2022 è la mancanza di personale (35%). Di fatto, per oltre 8 medici su 10 lavorare nel Servizio sanitario nazionale è sempre più difficile, e l’89% di loro ritiene di non essere pagato abbastanza. Lo scenario è quindi quello di un’insoddisfazione per la propria situazione economica. Per quanto apprezzino ancora il loro lavoro solo il 60% dei medici sceglierebbe nuovamente questa professione.

Il divario salariale tra chi lavora in ospedale e in ambulatorio

“I medici italiani guadagnano in media 60.000 euro l’anno, ma esiste una grande differenza tra gli ospedalieri e chi opera soprattutto in ambulatorio, inclusi i medici di medicina generale – spiega Daniela Ovadia, direttrice di Univadis Medscape Italia e autrice del report -. Se per i primi si arriva in media a 56.000 euro l’anno, chi riceve pazienti in ambulatorio ne guadagna fino a 79.000, ben 23.000 euro in più. Le donne poi sono una categoria che viene ulteriormente penalizzata: in media guadagnano circa 20.000 euro all’anno in meno dei colleghi uomini, con l’aggravante di pagare spesso anche il conto più salato in termini di equilibrio tra vita privata e professionale”.

Tra carenza di personale e aumento delle aggressioni

“La pandemia da Covid-19 ha portato a vari cambiamenti negli orari e nei salari, ma non è più la principale fonte di problemi all’interno degli ospedali. Le cause sono più strutturali e organizzative: c’è carenza di personale, bassa sicurezza per i medici, aumento delle aggressioni, diminuzione dei benefici, mentre gli stipendi restano sempre uguali. La conseguenza è che sempre più medici, soprattutto i più giovani, sono spinti ad andare a lavorare all’estero – aggiunge Ovadia -. Oppure, per ovviare alle difficoltà, si guarda alla sanità privata, un settore che attira sempre maggiore attenzione (32%)”.

Resta centrale la relazione con il paziente

A compensare almeno in parte il sentiment negativo rimane l’importanza della relazione con i pazienti, che per il 31% del campione resta uno degli aspetti più gratificanti del proprio lavoro. Altri motivi di soddisfazione personale sono la consapevolezza della propria bravura (26%), l’aver contribuito a rendere il mondo un posto migliore (12%) e l’orgoglio di essere medico (9%).
Rispetto all’indagine del 2020, un altro aspetto degno di nota è quello relativo alla telemedicina. Nel precedente report, riporta Adnkronos, si registrava scetticismo rispetto all’utilizzo dei nuovi strumenti digitali nell’ambito della salute, mentre adesso risulta in netta crescita chi utilizza strumenti di telemedicina (36%) e ne è soddisfatto (71%). Tanto che il 20% prevede di estendere la telemedicina alla teleconsultazione.

Qual è l’importo minimo dell’Assegno Unico senza presentare l’ISEE?

L’Assegno Universale Unico (AUU) è il supporto economico fornito dall’INPS a tutte le famiglie con figli a carico, e rappresenta un contributo che riunisce e sostituisce i bonus di maternità INPS e i bonus regionali precedentemente esistenti. Ma se per presentare la richiesta è necessario fornire in anticipo l’ISEE, è comunque possibile richiedere l’Assegno Unico 2023 anche in assenza di ISEE. In tal caso l’importo sarà quello minimo, ovvero 50 euro mensili per ogni figlio minore a carico presente all’interno del nucleo familiare.

Se l’ISEE inferiore è a 15.000 euro agevolazione più alta per ogni figlio

L’assegno unico per i figli, in quanto di portata universale, è quindi riconosciuto persino a coloro che non dispongono di una dichiarazione ISEE o che scelgono di non presentarla: in questo caso avranno sempre diritto all’Assegno, ma sarà dell’importo minimo, come se si avesse un ISEE superiore a 40.000 euro. Viceversa, chi ha un ISEE inferiore a 15.000 euro avrà diritto alla agevolazione più alta per ciascun figlio. Alcuni mesi fa, però, il Ministro della Famiglia e delle Pari Opportunità ha dichiarato durante la presentazione della legge di Bilancio l’intenzione di rivedere il ‘fattore ISEE’ per determinare gli importi degli assegni unici e universali, legandoli al nuovo quoziente familiare.

Le novità introdotte a gennaio

La legge di bilancio approvata nello scorso dicembre 2022, in vigore dal 1° gennaio 2023, ha introdotto alcune novità per l’Assegno Unico e Universale. Anzitutto, un aumento del 50% dell’assegno unico per le famiglie con figli di meno di un anno, un aumento del 50% dell’assegno unico per i figli con un’età compresa tra 1 e 3 anni, per nuclei familiari con almeno 3 figli e con ISEE fino a 40.000 euro. Inoltre, un aumento del 50% dell’assegno per le famiglie con 4 o più figli. La legge ha inoltre confermato gli aumenti già stati previsti nel 2022 per i figli disabili sopra i 18 anni senza che vi sia limite d’età.

Non occorre modificare la domanda già presentata per aggiornare il proprio ISEE

In ogni caso, il processo di invio telematico AUU 2023 è attivo dal 1 marzo. L’assegno sarà versato direttamente sul conto corrente intestato al richiedente, come indicato durante la domanda. Il contributo viene elargito mensilmente e verrà accreditato entro 30 giorni dalla presentazione della domanda, seguito da un versamento mensile regolare. Nel caso di ritardi nel pagamento, eventuali somme arretrate saranno pagate in un’unica soluzione durante la prima mensilità disponibile.
Ma è necessario modificare la domanda di Assegno Unico già presentata per aggiornare il proprio ISEE? La risposta è negativa. È sufficiente compilare un modulo sul sito dell’INPS, o recarsi presso le sedi territoriali dell’INPS o un CAF convenzionato con l’INPS per ricevere assistenza gratuita.